IL FASCINO DELL’APOCALISSE DI KORE

3 Agosto 2024 | Pensieri enantiosemici sul mito


Che sia una di quelle cose da provare almeno una volta nella vita.
Una di quelle cose in cui cascare; terrificante, dissociante, e tremendamente affascinante.
La visione dell’Apocalisse, la caduta nella tana del bianconiglio: tu immobile in attrattiva e congelamento, mentre attorno cambia muta ribolle e tu, ancora, diminuisci sempre più, quasi immemorabile.
Spesso, raramente o meno, accade.

Io scelsi di non fuggire, scelsi di non gridare e chiamare aiuto. Avrei potuto invocare qualsiasi divinità, ma scelsi di non farlo.
- E nessuno ne parla di questo, perché fa più comodo sparlare degli altri e di come essi siano sempre identificati con le loro azioni; mentre quando raccontiamo di noi, suvvia, dietro ogni nostro fare anche peccaminoso c’è una motivazione, giustificazione che ci salvaguarda dal giudizio nostro e altrui!

C’è da dire che gli umani non dovrebbero mai sfidarci, coi loro pettegolezzi.
Le catastrofi naturali, le piaghe che noi scateniamo, mettono gli umani in condizione di fronteggiare la loro misura contro le leggi degli dèi.
Non solo la loro infinitesimità e impotenza, ma anche la grandezza rispetto a ciò che a loro è più piccolo.

È per questo che gli umani sono il mezzo del Mezzo stesso, tra astri e atomi. Una misura mediana che tende ad un equilibrio inconcepibile.
Così, c’è chi tra loro rimane a guardare quella catastrofe scatenata, che di lì a poco lo colpirà, senza muoversi, tra gli ululati dei più.
Monti in fiamme, maremoti, eruzioni, geyser.
Quell’umano, incantato dal fascino, è colui che ascenderà all’Olimpo.
Egli non teme la morte, teme di non essere abbastanza, teme la mediocrità e l’indifferenza; perciò egli si spinge, oltre i confini delle sue colonne d’Ercole, nel tentativo di afferrare, anche solo con lo sguardo, qualcosa che va oltre il suo regno umano. Qualcosa che è divino.
Gli umani sono così incoerenti.

Non li biasimo però, perché la fascinazione è loro, non nostra.
Anche mia fu, in quell’attimo solo in cui venni ghermita e trascinata verso il mondo prospero oscuro di Ade.
Una caduta umana, che mi disegnò come unica dea divisa in due metà.

Il fascino è un potere che seduce, una forza attrattiva che si aggancia e tira. È un richiamo quasi totalizzante che porta ad un collasso antico, quasi malefico: una malìa, di un qualche dio lassù che si diverte. Tutto ciò che quel dio può fare è scagliare Fascino giù dalla rupe e aspettare che qualcuno abbocchi.

Avviene un fatto però, con questo termine così ammaliatore, uno di quei fatti linguistici umani, paradossali, che da totale e perfetto, scivolando giù dall’Olimpo, si travasa nel regno della parzialità e dell’imperfezione apparente… Fascino è sì un’attrattiva, un maleficio, ma simultaneamente l’amuleto che lo scongiura, un’ambivalenza enantiosemica.

Gli umani e il loro linguaggio sono così incoerenti.
E così divenni io, a causa di quella breve caduta nella tana: da dea figlia, a umana, a dea regina.

Io scelsi di non fuggire, rimasi immobile e sussurrare solo:

«Tienimi, lascia ch’io sia solo l’uno – o anche la metà; – l’intera metà (quale che sia),
non i due, non le parti separate e incongiungibili,
giacché non mi rimane altro che essere l’incisione»*

Tutti noi camminiamo, con le parole, quatti quatti tra le fughe di due pietre, con la possibilità di vedere una porzione di una sola di esse.
Di fatto se ci si lascia alle spalle la superstizione e ci si sgancia dall’olfatto putrido, non possiamo far altro che guardare il cielo e invocare la luna quando è a metà.
Questo è il Fascino dell’Apocalisse: quel sintomo diviso che ci attrae verso la morte, ma che scatena immobilità di sopravvivenza, perché l’entropia e il destino chiamano a gran voce.

Io scelsi di non fuggire perché provai Fascino: fu il patto di diventare umana nella mia Apocalisse a essere amuleto di quella malefica trasformazione da Kore a Persefone. Da Dea Figlia, a Umana, a Dea Regina, regnante e potente.
Se cadi nel regno del Vuoto non puoi far altro che scegliere la resa, e fare l’amore con essa, trasmutare, in quel tempo mediano, umano e fascinoso.

La metà è una mèta, un destino, quasi un valore.
E allora, nonostante uno sguardo sempre parziale
- vostro, oh uomini; o mio, divisa tra due dee -
sii fuga del mezzo, sii incisione che tutto contiene.

*Tratto da Persefone, Quarta Dimensione di Ritsos

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