PELLE, II° VORTICE
2025
Adieu, moi - peau!
PELLE, II° Vortice
•
a performance by Ortensia Sayre Macioci
March 2025
•
conception by Ortensia Sayre Macioci
stage costumes Maria Alessandra Giuri & Ortensia Sayre Macioci
camera and editing Lorenzo Merico
scenographic installation Marco Curatolo
location Spazio Recherche, Roma (RM)







POWERED BY SAYRE
PELLE, II° Vortice è il secondo flusso performativo del progetto VORTICE,
Se VORTICE è il racconto di una Genesi - dal mondo naturale del I° VORTICE, Cura raggiungiamo il mondo dell’Altrove, V° VORTICE - nel II° VORTICE l’evoluzione inizia a spingere: così l’animale precedentemente incarnato inizia a tendere verso ciò che pian piano diverrà, ovvero un essere umano, logico, razionale e apollineo. La conoscenza di questo essere nasce nel momento in cui sperimenta, sulla sua stessa pelle, attraverso la sua stessa pelle, la separazione fra il proprio Sé e il resto dell’esistere, il non-Sé.
Pelle vuole indagare in scena il concetto dell’identificazione a partire dalla dis-identificazione con ciò che non si è: l’autoconoscenza attraverso la separazione.
Questa consapevolezza di separazione fra il proprio Sé e ciò che è altro-da-Sé (che sappiamo essere apparente, ma assolutamente necessario come passaggio) avviene attraverso l’atto di mutazione, svestizione e scuoiamento della propria pelle, e attraverso il gesto di indicare quest’ultima, ovvero ciò che non appartiene più. Questo passaggio è il pointing, il primo gesto comunicativo dei neonati, che a livello evolutivo svolge un ruolo chiave sia nell’acquisizione del linguaggio sia nella maturazione della propria identità.
Dall’unione alla divisione - e quando riconosciamo che qualcosa è altro e separato da noi, iniziamo anche ad accettarlo, amarlo e superarlo. Dalla dis-identificazione con il Tutto si evolve, pian piano, la consapevolezza; e si svela il nostro vero Io.
Pelle prende in esame come base concettuale la teoria psicologica di Anzieu, noto psicoanalista francese, dell’Io-Pelle (o Moi-Peau).
Secondo Anzieu, durante la formazione del sistema nervoso, si inizia a formare anche l’Io, che nasce quindi alla periferia. È a partire dalla pelle che si creano le reazioni affettive di un corpo: la prima sensazione dell’Io è epidermica. Questa concettualizzazione definisce il corpo come un sistema complesso, legato a un doppio feed-back, sensoriale e cognitivo.
Se in Cura la domanda che ci si è posti è: Cosa sono io?
- in Pelle, la domanda è: Chi sono io?
E secondo la teoria psicologica presa in esame, la risposta è
(o dovrebbe essere):
ciò che vivo ed esperisco tramite la pelle, fino a fare la muta e svelarmi/scoprirmi in una nuova forma di me.




















LA FIABA SULLA PELLE DI JUTA
Dormo a mezzaluna, come ogni notte.
Sono un corpo ocra, un sacco di juta, questo fanno i sacchi la notte: dormire a mezzaluna, senza alcuna occupazione.
Mi sveglio di soprassalto, come ogni mattina, perché non so bene chi sono.
Prego l’albero, la Conoscenza, prego le sue fronde e i suoi rami, affinché mi possano indicare la direzione.
Mangio: forse un limone, giallo come me, ma né la sua polpa né il suo succo entrano davvero in me; perché sono un corpo ocra, un sacco di juta, tutto mi scivola sulla ruvida superficie, senza alcuna occupazione.
Bevo: forse della sabbia, da una brocca di ottone, ma tutta sfugge gloriosa e si disperde fuori di me; perché sono un corpo ocra, un sacco di juta, in cui nulla entra davvero, senza nessuno che se ne occupi.
Ringrazio e chiedo al cielo, perché è questo che si fa a guardare l’alto. Mi apro cristica, nell’attesa di una risposta, di una soglia che mi parlerà un giorno di me.
Nulla risponde.
Altra notte, altro giorno.
Prego l’albero, la Conoscenza, prego il suo tronco e le radici, affinché mi possano indicare la centratura, l’integrità, la coerenza e il radicamento.
Mangio un limone giallo, ma né la sua polpa né il suo succo entrano davvero in me; perché sono un corpo ocra, un sacco di juta, tutto mi scivola in superficie.
Bevo della sabbia da una brocca di ottone, ma tutta sfugge entusiasta e si disperde fuori di me; perché sono un corpo ocra, un sacco di juta, in cui nulla entra davvero.
Ringrazio e chiedo al cielo e mi apro cristica, nell’attesa di una risposta, di una soglia che mi parlerà un giorno di me.
Nulla risponde.
Altra notte, altro giorno.
Mangio un limone giallo e bevo della sabbia, ma tutto si disperde e mi scivola fuori; perché sono un corpo ocra, un sacco di juta.
Nulla mi tocca davvero.
Sono forse un vuoto involucro?
Ringrazio e chiedo nuovamente al cielo, mi apro cristica, nell’attesa di una risposta.
(Qualcuno direbbe: “Chiedi e ti sarà dato”)
È un giorno come tanti quindi: mi sveglio, prego, mangio, bevo, chiedo.
Mi apro cristica e mi arrendo.
Basta, mi arrendo. Davvero, basta.
D’un tratto qualcosa di sconosciuto, un rombo spira e mi inchioda.
Non mi ero mai arresa così.
Chi sei? - sembra dire.
Le cose arrivano solo quando ci arrendiamo.
Così, senza sapere bene dove andare, inizio a camminare lontano, poiché tutto freme dentro: non è proprio una cosa che i corpi ocra, i sacchi di juta fanno, ma non posso fare altro che seguire quel mistero.
È forse quella soglia che di me parla?
Cammino e cammino; tormentata, elettrizzata, focosa e fedele.
Chi sei? Ma sono un corpo ocra, un sacco di juta, come posso andare così lontano? Come posso essere altro?
Nel mio petto c’è uno spiraglio ora. Una cosa che mi si muove dentro e spinge e apre. Mi apre, tra me e me. Sembra una soglia, come quella che il corpo ocra, il sacco di juta, ha chiesto per tanto tempo.
Sembra che il mio sacco si stia sformando di me: dalla mia pelle nasce e muta una nuova pelle, un nuovo corpo ocra. E il sacco di juta ora è a terra.
Ti indico. Perché sei fuori di me? Io ti conosco, io so chi sei. Quindi perché ora sei fuori di me?
Perché ora sono svestita? Di tutto ciò che ero. Di tutto ciò che non sono più. Di tutto ciò che è ormai non-me.
E ora, svestita, ti indico e ti guardo sacco di juta. Se tu eri me e ora sei a terra: chi sei tu e chi sono io?
Moi - peau
Lo sai, sono affezionata a te, sei stato me, con tanta dedizione.
Così, nel mio altro camminare, svestita, da vero corpo ocra, ti porto sull’altare, come la Madonna fa con il Cristo crocifisso; e ti prego, come sempre ho fatto con l’albero; e ti ringrazio, come sempre ho fatto con il cielo. Ma stai con me ancora, te ne prego. Tu eri me: mangiamo limoni e beviamo sabbia insieme.
Ma, tra te e me, a te nulla tocca, perché?
Sacco di juta, facciamo insieme ancora, stai con me ancora, te ne prego. Tu, un sacco di juta; mentre a me tutto ora entra.
Siamo diversi ora? O siamo uguali? Coincidenti, sovrapposti. Siamo estensioni, mutazioni, sublimazioni l’una dell’altro?
Siamo diversi quindi ora?
E mi domando da chi, era dentro di te, da chi è sempre stato dentro di te. E chi ero io prima, dentro di te? E chi sono ora?
Cosa posso? Io da vero corpo ocra, posso godere? Piacere?
Noi come facevamo prima? Tutto quel tempo a fare cosa?
Tu ed io. Senza di te sola, solo, io.
La mia pelle ora è mia, quella che mi spetta.
Ti porto con me ancora un pò dai, facciamolo per nostalgia, per narrazioni per copioni che non vogliamo lasciare, camminiamo ancora insieme, te ne prego.
Ti voglio ringraziare, ti voglio adorare, anche se il vento continua a cambiare. Anche se il rombo continua ad aspirare.
Danziamo insieme.
Perché stare soli?
Danziamo ancora. E ancora.
Ma: ancòra è un’àncora - mi dice il rombo vento
Credo di dover andare, sai?
Sento di voler andare.
Ti lascerà andare con cura, perché tu mi hai accompagnato: ti abbraccio e ti canto una nenia per la tua notte, così potrai dormire per bene, finalmente solo. Così non ti dovrai svegliare più di soprassalto.
Io vado ora, sacco di juta.
Ho preso tutto.
Ho vissuto con te. Ti ho filato e filtrato.
E ora so, che questa sono.
Chi sono? Non lo so, ma questa sono.
Questo ora so: che questa Pelle è la mia vera.
Adieu moi - peau






SULLA MIA ESPERIENZA DI PELLE
La sveglia del mattino è stata brusca: una saracinesca senza tregua è crollata, imperterrita e con un messaggio molto poco chiaro, così io, nello spavento, mi sono sono alzata. Con un motivo ancora meno chiaro. Ma non avrei potuto fare altrimenti.
Ho pregato e mangiato sì, ho chiesto con dedizione. E intanto tu mi hai presa e sorpresa. Ti sei fusa pelle, calza danzante, sebbene io ora non sappia intendere ma solo volere, sebbene io non sappia bene cosa dire.
Ma su una cosa posso prendere parola.
Dopo lo strappo, dopo essermi staccata via da te, averti sulle braccia come la Vergine con il Cristo, ero pronta - ero pronta lo giuro! - a cavalcare la navata per darti in pasto agli altari. Per dirti addio, a te pelle vecchia, corpo di juta.
Ma la luce mi ha fatto desistere, troppa purezza, troppa umanità, troppo amore incondizionato.
Ho tentennato a fare quei passi. Perché è difficile salutare e lasciare andare in pace.
Decisamente siamo troppo divini per rendercene conto. Così come troppo umani per essere divini appieno.
E che sia follia o morbosità, che sia gioia o maestria, che sia innocenza o cura, abbiamo entrambe queste pelli.
Abbine cura, oh tu che leggi, umano e divino, divino e umano.
Perché alla fin fine ciò che conta è gustare ogni frutto e ogni suo succo.