LA COMETA CHE SFIDÒ LA VITA E LA RESURREZIONE
28 Luglio 2024 / Storia di vite passate nel 1432 d.C.
Dione
Io non voglio essere cometa.
Non voglio nascere stella e dissolvermi detrito.
Non voglio abbagliare un istante soltanto e lasciare Jericho sola, secca e incrociata.
Non voglio nemmeno illuminare il destino di altri, giacché non so per me, come continuare.
Vorrei parlare con una cometa, essere vestita semmai, esserne adornata per un tempo, direzionata, ma poi lasciata libera di poter camminare indipendente sotto la sua scia che via via si dissolverà.
Come la notte che segue il giorno e ne anticipa uno nuovo.
Ma se finisce il tempo dei panni bianchi da lavare, delle lenzuola da stendere, se il grano, pur sotto guerra, fa da sé, io chi sono? Se tolgo tutto ciò che faccio, tutto ciò che so, che conosco, che ho imparato a capire di me nello scorrere dei flussi, cosa resta? Chi resta?
In un tempo in cui la guerra paralizzava il nostro vivere, e le nostre giornate erano osservate sotto stretta sorveglianza dagli uomini vestiti di grigio, io iniziai a ribellarmi alle ingiustizie, corazzata come donna sotto il fantasma di una dea che gridava alla vendetta.
Le mattine erano volte alla fornitura dell’acqua e alla coltivazione della terra, sempre da risistemare poiché smossa per via delle barbarie notturne; i pomeriggi erano al servizio dei più. Noi eravamo sole, donne, serve, schiave senza il permesso della fame e della sete. Io marciavo mascherata, mentre Jericho apriva il cuore e perdeva la sua linfa bevuta senza ritegno dagli uomini vestiti di grigio. La notte era un coprifuoco: io covavo furia mentre lei dormiva serena col viso disteso. Mai mi chiesi come riusciva.
Forse l’accoglienza è più forte di una guerra non nostra. Ma di lì a poco, io divenni la cometa incendiaria e lei il cielo e la terra deliziati dal mio passaggio.
Jericho voleva essere madre.
Io volevo essere martire, senza saperlo.
Cometa.
In un pomeriggio eretico mi feci notare troppo nel mio turbine di odio e rancore. La mescolanza tra la vendetta verso di loro e l’odio che stava macchiando la stessa vita creò uno scenario che non riuscii più a ignorare. La soluzione era Jericho, ma il solvente aveva cagliato troppo nella mia purezza femminile. L’arroganza mi dilaniò, diventando vittima di me stessa, imbalsamata sotto un rovere.
Mi feci seguire da alcuni di loro, mentre il sole all’orizzonte iniziava a tramontare e tra i boschi sfatti attorno alla nostra casa mi feci violare, per poi violare io le loro vite già perse e spente.
Macchiata e accecata dalla mia stessa foga, scelsi di privarmi delle mie risorse e di tagliare il mio stelo.
Alla fine il suicidio è un diritto parziale per rivendicare la vita.
Fu tutto un’atto in corsa: la corda, il rovere e il nodo.
Quando la guerra non era ancora scoppiata, Jericho ed io desideravamo costruire un’altalena su quel ramo, l’unico amico che mi accompagnò fino alla fine.
Ma il corpo aveva già deciso e armeggiava rapido.
La mente era ancora nel passato della violenza.
Del mio spirito non seppi più nulla.
“Così vedremo, chi, se non io, è padrona della vita”
E in un unico salto nel vuoto, le uniche traditrici di questo moto ingiustificabile furono le mie stesse lacrime: danzando innocenti, inumidirono quella terra che non avrei ma più toccato.
Jericho
A volte la vita è un rituale che non può portare altro che alla morte.
Ma per Dione, fu l’arroganza guercia, cieca, di una donna che dava la colpa agli uomini e voleva essere padrona della sua vita, contro la Vita tutta.
Contro è un termine che ribolle di scontro, senza sconti. E così fu.
Dopo il suo atto, slancio, i suoi detriti mi donarono l’acqua necessaria, madre di una nuova ciclicità, sorella di un’antica sofferenza, figlia di un sacrificio di grazia - che io ringrazio, giuro, ringrazio.
Quando le ferite si imputridiscono è difficile alla luce e all’ossigeno raggiungere l’oscurità del tocco lacerato. E ciò che accade è una fine.
Dione mi fece parlare con la sua cometa, mi vestì, mi adornò per un tempo, direzionata, poi mi lasciò libera di poter camminare indipendente sotto la sua scia che via via si dissolse.
Come la notte che segue il giorno e ne anticipa uno nuovo.
Dione voleva essere martire.
Io volevo essere madre, senza saperlo.
Resurrezione.
Cuore, rialzati! Che la memoria dei martiri non è fatta per essere ripetuta, ma per essere purificata!
Durante la guerra ogni nostra azione era una ricerca di provviste per un futuro incerto. Ma le sue erano stagni, le mie erano respiri. Forse nell’ignoranza o nella vigliaccheria, scelsi di non guardare ciò che stava davvero accadendo. E, da sola, casta, fluivo per noi e per i nostri aguzzini senza differenza alcuna. Questo mi salvò inizialmente, ma non poteva essere per sempre. Fu Dione con la sua impiccagione a farmi vedere.
In quel pomeriggio eterico, avevo finito il mio dovere. Ero solita chiedere ai boschi di aiutarmi a ripulirmi di quei mali, non degli uomini grigi, ma che colpivano e inondavano quegli uomini grigi. Facevano cose orribili, sotto una guerra da loro dichiarata, ma non erano la guerra. Erano solo uomini. Forse questa cosa si chiama perdono, forse innocenza. In quel bosco eterno vidi tutto ciò che c’era da vedere. Ciò che Dione mi fece vedere. Ciò che sua la cometa sfidò, sola, accerchiata e presa. Agente attiva di un’atto ingiustificabile per sé, ma che trova ora pace in me.
“A volte quando la regina chiama, porta tutti con sé”
Ci sono due modi di diffondere luce. Essere una cometa oppure essere unirsi, con il maschile e diventare insieme madri e padri di altra luce.
E in un unico salto nel vuoto, dopo anni decisi di diventare madre, e le amiche più forti in quella creazione furono le mie stesse lacrime: danzando innocenti, inumidirono quella terra che un’altra vita, di lì a poco, avrebbe toccato.